Čertkovo e le ultime operazioni
Il nuovo anno trova i sopravvissuti del Blocco Nord a Čertkovo, dove avevano potuto avere un po’ di riposo e di ristoro ma restavano sotto il fuoco russo. Infatti la 57a Divisione della 1a Armata Guardie si era spinta fino ad attestarsi alla periferia di Čertkovo che, nel frattempo, i soldati italo-tedeschi avevano trasformato in un vero e proprio caposaldo recintato da filo spinato, scavando trincee, posizionando mitragliatrici, cannoni e semoventi. Il 1° gennaio i tedeschi ne assunsero il comando; gli italiani, posti agli ordini del Gen. Lerici, inquadrati in un raggruppamento, ne costituirono la riserva.
Il destino della guarnigione di Čertkovo era ormai segnato. I sovietici cominciarono a tempestare il caposaldo di proiettili colpendo isbe, magazzini, lo stesso ospedale dove, come attesta il S. Ten. Corti nel suo noto libro “I più non ritornano”: … stavano ricoverati circa duemila uomini, assistiti da tre medici costretti ad operare in condizioni agghiaccianti: asportando gambe e braccia in cancrena con coltelli e lamette da barba”.
Gli attacchi russi reiterati nei giorni 4 e 5 di gennaio consentirono loro di penetrare nel paese, fortunatamente poi respinti e con gravi perdite. La lotta continuò con alterne vicende fino alla sera del giorno 15 quando, constatata l’impossibilità di ricevere adeguati rinforzi, soprattutto di mezzi corazzati, venne dato alle truppe l’ordine di tentare di rompere l’assedio con i propri mezzi.
Nella notte sul 16 gennaio italiani e tedeschi, con tutto ciò che fu loro possibile portarsi dietro, lasciando tuttavia a Čertkovo circa duemila congelati e feriti non in grado di camminare, raggiunsero un passaggio attraverso il quale, grazie anche alla diminuita pressione dei russi, poterono imboccare la strada che avrebbe portato alla salvezza i pochi superstiti del Blocco Nord. I ripiegati da Čertkovo arrivarono a Belovodsk nella notte sul 17 gennaio, trovandola presidiata da Unità corazzate tedesche e dai Carabinieri del XXXVI battaglione mobile della Divisione Vicenza.
La mattina seguente però, essendo Belovodsk già minacciato dalla inesorabile avanzata russa, i superstiti dello spaventoso dramma, in gran parte feriti o congelati, vennero subito trasportati a mezzo camion a Starobelsk e da qui nelle retrovie, in luoghi di cura e di riposo.
Rimaneva avvolta in un mistero che non lasciava speranza la sorte dei feriti, dei congelati, degli ammalati, disseminati lungo il tortuoso cammino del Blocco Nord dalla piana di Makarovskij a Belovodsk.
Quanto al Blocco Sud, i pochi sopravvissuti giunti a Forštadt-Belaja Kalitva il 2 gennaio 1943, su ordine del Comandante tedesco della piazza che riteneva imminente un attacco dei russi, dovettero lasciare la località. Portati alla stazione e stipati su carri bestiame vennero avviati a Debal'cevo dove giunsero spossati dalle fatiche, dalle privazioni e dal rigido freddo.
Tutti gli appartenenti della Pasubio, ovunque si trovassero, raggiunsero poi la località di Verovka in Ucraina dove, per parecchi giorni, continuarono ad affluire i militari provenienti dal Don e da altre località, in quanto luogo di radunata e di riordino della Divisione.
Qui lo stendardo dell’8° Art., uscito da Čertkovo, si unì alle bandiere del 79° e 80° Reggimento che avevano compiuto la ritirata con il Blocco Sud.
A Verovka la forza della Divisione salì a circa 2800 uomini sui 9600 effettivi all’inizio della poderosa offensiva sovietica. Una perdita molto elevata che diari e relazioni attribuiscono in modo particolare alla resistenza sulla linea del Don che aveva imposto, talvolta, il sacrificio totale di interi plotoni o compagnie; ai combattimenti che i soldati avevano dovuto sostenere durante la ritirata per rompere gli accerchiamenti; agli stenti ed alle fatiche e, non ultimo, all’altissimo numero di soldati fatti prigionieri e di cui nulla si sapeva.
La Seconda Battaglia Difensiva del Don e l’operazione Piccolo Saturno del dicembre 1942, con gli aspri combattimenti dall’11 al 19 dicembre e con il successivo ripiegamento del Blocco Nord e del Blocco Sud, avevano provocato in ogni fase la cattura di un grande numero di prigionieri.
Non è noto il numero dei soldati della Pasubio catturati dai russi; una serie di considerazioni porterebbe a dedurre che essi furono circa 3900 sul totale dei circa 70000 catturati italiani.
La cattura dei nostri soldati avvenne, nella maggior parte dei casi, da parte delle truppe siberiane o al termine di un combattimento, quando la prevalenza delle forze nemiche rendeva impossibile ogni ulteriore resistenza, oppure nel momento in cui i nostri soldati, gravemente feriti o congelati, si erano venuti a trovare nell’incapacità di camminare. La guerra per loro era finita, cominciava il calvario della prigionia.
Alla cattura seguì prima la spogliazione dei prigionieri, la sottrazione di orologi, penne stilografiche, anelli, maglioni e stivali, poi l’incolonnamento a gruppi di mille prigionieri e, infine, la marcia a tappe forzate verso l’internamento.
Fu la marcia del “davai”, un nome che avrebbe ossessionato i prigionieri, urlato dalle sentinelle che li scortavano, che costituì per loro un vero calvario morale e materiale; compiuta a piedi, a marce forzate, in condizioni di temperature proibitive, con rarissime distribuzioni di viveri e di acqua, fino alle stazioni di raccolta e poi per ferrovia, su carri merci che all’interno non avevano nessuna attrezzatura ed in cui gli uomini erano costretti a stare in piedi, pigiati ed immobili.
Durante questi dolorosi trasferimenti che duravano mediamente un paio di settimane lo stillicidio dei morti per dissenteria, per ferite non curate, per i congelamenti arrivati alla setticemia continuò senza sosta, in modo inesorabile. I cadaveri rimanevano nei vagoni accanto ai vivi finché i russi non decidevano di farli scaricare nelle scarpate. Nella località di Rada, ad est di Tambov, nel bosco antistante la stazione ferroviaria, sono state individuate fosse comuni in cui sono stati sepolti migliaia di nostri prigionieri deceduti sui treni. La mortalità durante i trasporti in treno fu elevatissima.
La gran parte dei sopravvissuti finì raccolta nei tre maggiori campi di smistamento, quelli di Krinovoe, Tambov e Uciostoe (Mičurinsk). I prigionieri della Pasubio furono per la maggior parte ristretti nei campi di Tambov e di Uciostoe. Qui i sopravvissuti si illusero che il peggio fosse passato, poiché in loro subentrò la speranza di poter finalmente dormire al caldo, mangiare regolarmente, potersi lavare e sbarbare. Li attendeva invece una tremenda realtà.
In questi campi non esisteva alcuna organizzazione materiale; a Tambov furono stipati in rudimentali ricoveri interrati, senza pagliericcio né coperte, mentre a Uciostoe si trovarono a dormire sulla terra gelata. La distribuzione del cibo avveniva ogni tre-quattro giorni ed era molto scarsa. A centinaia, ogni giorno, i prigionieri morivano per inedia, a causa del tifo petecchiale, il morbo che colpiva soprattutto i più deboli e denutriti.
La vita fu resa ancora più difficile dalla mancanza di solidarietà tra i prigionieri, anzi, dal manifestarsi sempre più violento dell’egoismo e della lotta per la sopravvivenza, nel più totale abbrutimento.
La mortalità più elevata si ebbe tra il gennaio ed il giugno 1943, pari all’85% dei decessi totali, di cui l’11% è riferito al solo mese di gennaio, a cui vanno aggiunti i decessi alla cattura, durante le marce del “davai”, sui treni, e nei campi di smistamento in cui in questa prima fase i prigionieri non vennero censiti.
(testi tratti da:
Rati A. “LA FULGIDA EPOPEA DELLA DIVISIONE PASUBIO”, Ed. Sometti, Mantova, 2012
Rati A. “L’80 FANTERIA, la lunga storia eroica si un reggimento mantovano diventata leggenda”, Ed. Sometti, Mantova, 2005)