Al Gen. Messe che, in base alle esperienze acquisite in un anno di comando del C.S.I.R., cercava di convincere Mussolini della inopportunità di un maggior impegno militare italiano sul Fronte Orientale, il Duce ribadiva che i 200.000 uomini dell’Arm.I.R. al tavolo delle trattative post-belliche avrebbero certamente pesato più dei 60.000 del C.S.I.R..
Venne dunque costituita la nuova Grande Unità, l’8ª Armata, composta da tre Corpi d’Armata oltre alle altre Unità direttamente alle dipendenze del Comando d’Armata.
Questo Comando si costituiva il 1° maggio 1942 a Bologna e la Grande Unità ai suoi ordini presentava una forza di 229.000 uomini.
Se vi era stato un forte incremento come forza in uomini, non altrettanto si poteva dire degli armamenti che, in percentuale, risultavano inferiori a quelli in dotazione allo stesso C.S.I.R..
La procedura seguita per la designazione del comandante dell’8ª Armata risultò particolarmente laboriosa, influenzata come sempre dal concetto di anzianità di grado quale fattore determinante. Si ripiegò quindi sul Gen. Gariboldi, un vecchio ufficiale che aveva dato ottime prove nella Prima Guerra Mondiale ma che non sembrava essere stato altrettanto deciso, soprattutto nei rapporti con i tedeschi, in Libia.
La priorità del Comando tedesco si orientò sul settore meridionale del fronte, dove esistevano le maggiori riserve petrolifere sovietiche ed i suoi più importanti complessi industriali.
Una volta che si fosse riusciti ad impadronirsi della grande ansa che il fiume Don formava in direzione del fiume Volga, sarebbe stato possibile facilitare la conquista della grande città di Stalingrado, bloccando così i collegamenti tra le regioni industrializzate del Sud, ricche di materie prime e di petrolio, e le regioni del Centro e del Nord, prevalentemente agricole.
Così come era accaduto per il C.S.I.R., anche per l’8ª Armata il concentramento delle Unità risultò scaglionato nel tempo ed il loro impiego non poté avvenire che in fasi diverse. Una volta ripresa l’offensiva tedesca il contributo italiano risultò inizialmente limitato al XXXV Corpo d’Armata (ex-C.S.I.R.), a cui si era aggiunta la appena arrivata Divisione Sforzesca.
Al XXXV Corpo d’Armata veniva ordinato di puntare su Krasnaja Poljana e Rykovo. La sera del 18 luglio le avanguardie delle Divisioni Celere e Pasubio si riunivano nell’abitato di Krasnyj Luč, per concentrarsi poi nella zona di Luganskoe, nei pressi di Vorošilovgrad. Qui il Comando dell’8ª Armata, entrato ormai pienamente nelle sue funzioni, procedeva ad alcune varianti nell’inquadramento delle proprie Unità, provocando perplessità fra gli appartenenti all’ex-C.S.I.R.. Abituati nei lunghi mesi di lotta a trovare nel fraterno affiatamento fra le Unità l’elemento del loro successo, non apprezzavano i rimescolamenti tra vecchi e nuovi appena arrivati al fronte, avendo la sensazione che si volessero attenuare certi loro privilegi di esperienze e ricordi accumulati durante lunghi mesi di manovre e di combattimenti comuni.
Il 13 agosto 1942 le truppe italiane avevano raggiunto il Don ed il Comando dell’8ª Armata assumeva la responsabilità del settore assegnato sulla riva destra del fiume per una lunghezza totale, lungo la riva, di 270 chilometri.
Mentre le Unità dell’8ª Armata marciavano verso il Don per schierarsi lungo i settori loro assegnati, già il 29 luglio la Divisione Celere aveva raggiunto l’ansa di Serafimovič, sul fiume, dove era in corso una furiosa battaglia per la conquista della zona. Tutti i reggimenti della Celere vi furono impegnati, con gravi perdite, tra le quali quella del comandante del 3° Bersaglieri Col. Aminto Caretto, uno dei più prestigiosi ufficiali italiani.
La Prima Battaglia Difensiva del Don
In luglio-agosto 1942 la 6ª Armata di von Paulus aveva raggiunto la zona di Stalingrado.
Contemporaneamente la 1ª e la 17ª Armata tedesche erano penetrate nella zona petrolifera del Caucaso. Ma, così come la 6ª Armata non aveva occupato Stalingrado, le altre due Armate non si erano impadronite di Groznij e dei suoi pozzi di petrolio.
Quanto più avanzavano, tanto più i tedeschi andavano avvertendo una certa penuria di uomini e di mezzi che non permetteva di togliere o di aggiungere qualcosa senza alterare i già precari equilibri esistenti. L’Alto Comando sovietico si era a sua volta convinto della inutilità di un comportamento meramente difensivo ed era così passato ad una serie di controffensive. In questo quadro, nella seconda metà di agosto, le Unità italiane si videro impegnate in una battaglia che verrà poi ricordata come la Prima Battaglia Difensiva del Don.
Lo schieramento dell’8ª Armata italiana, disposto a pelo d’acqua secondo le direttive del Comando tedesco, presentava alcuni punti particolarmente delicati: l’ansa di Verhnij Mamon, l’ansa detta di cappello frigio, ed uno spazio di una decina di chilometri all’estrema destra dell’8ª Armata, ad est di Simovnoj sino a Izbušenskij, fra la Divisione Sforzesca e la 79ª Divisione tedesca, che risultava praticamente sguarnito e poteva costituire un’ottima base di partenza per i battaglioni sovietici.
Particolarmente aspra fu la battaglia nel settore del XXXV Corpo d’Armata di competenza della Sforzesca. L’attacco russo iniziò il 17 agosto sul punto di contatto tra il 53° ed il 54° Ftr., con violenti scontri che proseguirono anche nei giorni successivi. Il 20 agosto i russi riuscirono a guadare il fiume in forze, investendo lo schieramento della Sforzesca.
E proprio per la confusa situazione venutasi a creare sul proprio fianco destro, il Comando della Divisione Pasubio dovette fronteggiare continue puntate nemiche, impegnandosi a che dall’arretramento dei reparti della Divisione Sforzesca i russi non fossero indotti a tentare manovre di accerchiamento nei suoi confronti. L’intervento della Pasubio, tra il 20 ed il 27 agosto, si concentrò tra la balka Ol’hovatka ed il caposaldo di Jagodnyj. Le perdite della Divisione nella Prima Battaglia Difensiva del Don furono molto elevate: 171 morti, 669 feriti e 87 dispersi.
Ancora il 26 agosto il nemico minacciava pericolosamente sia il caposaldo di Jagodnyj che l’intero settore. L’intervento degli ultimi reparti disponibili, con il contributo del IX Btg. Pontieri e dei Btg. alpini Morbegno, Vestone e Val Chiese, testé arrivati sul Don, riusciva tuttavia a sbloccare la situazione riportando al ripristino dello schieramento iniziale.
La pagina più famosa di questo periodo della Campagna di Russia è indubbiamente la carica di Izbušenskij, avvenuta il 24 agosto ad opera del Savoia Cavalleria. Al comando del Col. Bettoni i cavalieri si lanciarono impetuosamente sulle posizioni nemiche ed i russi, sorpresi da questa improvvisa irruzione, risultarono incapaci di organizzarsi. Impeccabili nella manovra ed incuranti del fuoco nemico i cavalieri del Savoia passavano e ripassavano più volte sul campo avversario, con le spade sguainate, sino al completo annientamento di ogni resistenza da parte sovietica.
Concludendo, se nella Prima Battaglia Difensiva del Don i russi non conseguirono grossi vantaggi territoriali, ne ottennero però sul piano strategico: la conquista di quota 220 nell’ansa di Verhnij Mamon metteva infatti a loro disposizione una valida base di lancio; così come, sull’estrema destra dello schieramento, le truppe alleate erano state costrette ad abbandonare la riva destra del Don e ad assumere un nuovo allineamento particolarmente vulnerabile.
La Seconda Battaglia Difensiva del Don
Era intanto giunto sul Don il Corpo d’Armata Alpino. Il suo impiego era previsto inizialmente nell’ambito delle operazioni che le Armate tedesche avrebbero condotto verso la zona montuosa del Caucaso, nell’intento di occuparla e portarsi eventualmente al di là di essa nelle zone petrolifere del Medio Oriente. Il trasferimento però era stato sospeso dai Comandi tedeschi ed il Corpo d’Armata Alpino era stato reinserito nel dispositivo dell’8ª Armata e posizionato sulla sinistra dello schieramento italiano.
Dopo alcune settimane di relativa tranquillità, in settembre i sovietici avevano ripreso ad esercitare una notevole pressione sulle postazioni italiane schierate nelle posizioni più delicate del fronte difensivo, senza tuttavia creare particolari difficoltà.
Il 20 ottobre avviene lo scambio in linea tra la Pasubio e la Torino. Il nuovo schieramento della Pasubio a cappello frigio vede la Divisione posizionarsi tra le località di Tereškovo e Ogolev.
Il 14 ottobre 1942 Hitler aveva emanato l’Ordine di operazioni n. 1 con il quale ribadiva che, in vista della stagione invernale, al Fronte Orientale spettava il compito di difendere a qualunque costo le linee raggiunte contro ogni tentativo di sfondamento dell’avversario. “Il secondo inverno russo ci troverà già pronti e meglio preparati”, asseriva. Ancora una volta commetteva l’errore di sottovalutare l’avversario, ritenendolo incapace di realizzare operazioni di grande respiro.
Per meglio attenersi a queste disposizioni che prevedevano la difesa a oltranza sulle posizioni raggiunte, senza alcuna possibilità di manovra, il Comando dell’8ª Armata italiana chiedeva che il proprio schieramento venisse riconsiderato, al fine di ridurne l’ampiezza e permettere così di poter disporre per ogni settore di una più considerevole capacità difensiva.
Gli spostamenti delle Unità realmente operati non corrisposero affatto a queste disposizioni, né sembrarono corrispondere ad un chiaro piano strategico, portando anzi ad un insensato rimescolamento fra Unità italiane e tedesche di cui si sarebbero visti gli effetti nel dicembre 1942.
In sostanza, mentre i tedeschi si trovavano costretti ad economizzare le proprie forze, il Comando sovietico andava accumulando le riserve indispensabili per la futura controffensiva.
La strategia sovietica fu quella di creare due fronti: quello del Don e quello di Stalingrado. Un terzo fronte Sud-Occidentale, a ovest del settore del Don, avrebbe dovuto collaborare con gli altri due nell’ambito di un unico piano, denominato in codice come piano Uranus. Gli attacchi avrebbero portato al completo accerchiamento delle forze tedesche impegnate a Stalingrado.
Le operazioni iniziarono alle 7,30 del 19 novembre 1942. Cinque giorni dopo le armate russe suggellavano l’anello steso attorno alle truppe di von Paulus, accerchiando 22 Divisioni e 330.000 uomini.
Per gli italiani la sorte si decise il 3 novembre 1942 in un piccolo villaggio nel quale si tenne una riunione dei vertici militari sovietici per valutare le modifiche da apportare alla originaria ipotesi di controffensiva, denominata in codice come Piano Saturno con la quale si intendeva tagliare ogni possibilità di ripiegamento alle forze tedesche impegnate nel Caucaso. L’operazione prevedeva in successione il logoramento, lo sfondamento in profondità, l’accerchiamento e la liquidazione delle Unità rimaste in tale sacca.
In questa nuova versione del piano, detta in codice Piccolo Saturno, il fronte tenuto dall’8ª Armata – da secondario e facile da tenere, come lo aveva definito lo stesso Hitler – diveniva primario obiettivo della stessa controffensiva russa. Per ragioni tattiche e topografiche la massima pressione iniziale sarebbe stata esercitata sui punti particolarmente deboli dello schieramento italiano: l’ansa di Verhnij Mamon, dove i sovietici mantenevano una importante testa di ponte e si aveva il punto di cerniera fra le Divisioni Cosseria e Ravenna, settore sempre particolarmente delicato; e più a sud, nella zona dell’ansa di Ogolev, il cappello frigio.
Per i sovietici l’operazione Piccolo Saturno iniziò nelle prime ore del 16 dicembre; per gli italiani che la ricordano invece come la Seconda Battaglia Difensiva del Don ebbe inizio cinque giorni prima, all’alba dell’11 dicembre, quando le prime salve delle artiglierie sovietiche investirono i settori della Divisione Ravenna nell’ansa di Verhnij Mamon, e quello di Ogolev presidiato dalla Divisione Pasubio.
I sovietici disponevano complessivamente di 90 Btg. di fucilieri, 25 Btg. di fucilieri motorizzati, 30 Btg. corazzati, con un totale di 754 carri; più di 2000 bocche da fuoco, 30 cannoni controcarro e 200 lanciarazzi.
Nel momento in cui la battaglia aveva inizio non esisteva solo un divario stridente fra quanto i sovietici impiegavano per attaccare e quanto gli italiani disponevano per resistere; lo stesso divario esisteva anche nello stato d’animo col quale i due avversari si apprestavano ad affrontare la battaglia. Ciononostante il soldato italiano combatterà con determinazione, coraggio e alto senso dell’onore, nella fedeltà al proprio paese ed alla propria bandiera. Soccomberà solo quando gli risulterà impossibile far fronte alla superiorità dei mezzi avversari, ed anche allora solo dopo aver dato fondo ad ogni sua risorsa materiale e morale.
Per i Comandi tedeschi l’importante era che lo schieramento sul Don tenesse a qualunque costo le proprie posizioni e vennero dati all’8ª Armata ordini precisi al riguardo, che tuttavia la realtà dei fatti rendeva inattuabili.
La strategia sovietica aveva puntato sul settore presidiato dal II Corpo d’Armata italiano come obiettivo primario dello sfondamento, concentrando qui il massimo delle proprie forze.
La fase di logoramento aveva già pressoché abbattuto la resistenza dei reparti italiani. La successiva fase di rottura, il 16 dicembre, sotto i bombardamenti incessanti delle katiusce, provocò il caos. Saltarono i collegamenti fra i reparti e piccoli gruppi di superstiti, ormai senza armi e senza munizioni, dovettero abbandonare le loro posizioni.
Dopo l’avvenuto ripiegamento, nell’intento di prevenire un eventuale tentativo d’accerchiamento del Corpo d’Armata Alpino, si diede luogo ad un vasto movimento di reparti che impegnava particolarmente la Julia, sostituita nelle sue originarie posizioni dalla Divisione Vicenza.
I gruppi di soldati che stavano ripiegando convergevano per la massima parte su Kantemirovka, importante nodo ferroviario sulla linea Voronež-Rostov e fornitissimo centro logistico. La città andava riempiendosi disordinatamente di automezzi, carreggi e uomini logorati nel fisico e nel morale, ormai disabituati alle consuetudini di una normale vita di reparto. L’attacco russo alla città, il 19 dicembre, provocò un effetto disastroso; ogni tentativo di porre ordine risultò impossibile e le colonne di uomini e carreggi finirono per dirigersi verso le più disparate direzioni.
Sul fronte del XXXV Corpo d’Armata, già dai primi giorni di dicembre erano state frequenti le azioni di disturbo operate da grossi pattuglioni nemici che avevano impegnato, oltre agli uomini della Divisione Pasubio, anche le CC.NN. dei Gruppi Tagliamento e Montebello.
All’alba dell’11 dicembre un attacco più violento del solito investiva i capisaldi Olimpo, Venere e Giove tenuti dal 79° Ftr. in un momento particolarmente delicato perché la Divisione aveva perso il suo comandante, Gen. Giovanelli, sostituito dal Gen. Boselli che non aveva ancora preso contatto con tutti i reparti; inoltre era tuttora in corso l’avvicendamento fra i vecchi elementi che si trovavano in Russia da più di un anno, con complementi appena giunti dall’Italia che risultavano di conseguenza ancora privi del necessario ambientamento. Il XXXV Corpo d’Armata la sera del 15 dicembre si presentava ancora sulle proprie posizioni, anche se alquanto provato e con scarse disponibilità di forze di rincalzo.
L’attacco improvviso sferrato dai sovietici all’alba del 16 dicembre investì l’intero settore, dalle postazioni del 79° Ftr. davanti a Krasnogorovka giù lungo quelle dell’80° Ftr. sino a Monastyrščina, con l’impiego di una enorme massa di uomini. Nonostante tutto i capisaldi avanzati della Pasubio opponevano ugualmente una strenua resistenza, soccombendo solo di fronte alla strapotenza numerica del nemico che, dopo averli letteralmente sommersi, si spingeva in profondità fra Abrosimovo e Monastyrščina.
Gli attacchi russi riguardarono anche il XXIX Corpo d’Armata e colpirono la Torino, la Celere e la Sforzesca.
Alle 10 del mattino del 19 dicembre 1942 fu data l’autorizzazione ufficiale al ripiegamento delle truppe italiane e tedesche operanti a sud del Corpo d’Armata Alpino, al fine di organizzare una nuova linea di resistenza da Tihaja‐Žuravka sino alla valle del Čir, attraverso Meškovskaja.
Il ripiegamento
In un’immensa distesa di neve gelata da temperature polari, sotto la costante minaccia di incursioni di formazioni partigiane o di potenti mezzi blindati, una colonna, un reparto o un gruppo di uomini sempre meno numerosi e più sfiniti, potevano trovarsi defilati o coinvolti nella battaglia in breve tempo, a seconda del corso di eventi sui quali essi potevano ormai influire poco o nulla.
Certo non fu solo un lento trascinarsi od un fatalistico subire; fu, anzi, un continuo lottare con ogni mezzo ed ogni risorsa morale e fisica, per infrangere ferrei cerchi che il nemico andava continuamente stringendo attorno alle colonne ed ai reparti nell’intento di togliere loro ogni possibilità di movimento e speranza di salvezza.
Si formarono due gruppi di ripiegamento: il Blocco Nord ed il Blocco Sud.
Il Blocco Nord si formò nella zona di Popovka e comprendeva la Divisione Torino con i Gen. Lerici e Rossi, la 298ª Divisione tedesca, un’aliquota della Ravenna con il Gen. Capizzi, un’aliquota della Pasubio, un’aliquota della Celere, oltre ad altre truppe e servizi del II e del XXXV Corpo d’Armata.
L’incolonnamento degli uomini risultò subito intralciato dall’inevitabile frammischiarsi di sbandati, di automezzi e carreggi, che andavano affiancando, superando ed immettendosi nei reparti inquadrati, provocando un notevole rallentamento nella capacità di manovra e di movimento.
Superata Pozdnjakovskij, il lungo serpentone risaliva il fianco destro della valle del Tihaja sotto il fuoco di artiglierie e mortai russi che vi aprivano larghi vuoti nei quali rimanevano poi le macchie scure dei morti e dei feriti che non riuscivano più a proseguire. La sera del 21 dicembre raggiunsero Arbuzovka, villaggio posto sul fondo di una conca che i sopravvissuti avrebbero ricordato come la valle della morte. I russi non avevano tardato molto ad occupare tutte le alture circostanti, dispiegandovi una grande quantità di mortai, artiglierie, katiusce e mitragliatrici, con cui avevano preso a battere ininterrottamente l’abitato, riducendo quel formicaio di uomini ad un vero e proprio inferno.
Il 23 dicembre fu decisa la sortita ed il movimento iniziò verso la mezzanotte. I russi, colti di sorpresa, tardarono a reagire e quando tentarono di farlo toccò alla retroguardia di opporre una tenace resistenza sino all’alba del 24 dicembre, permettendo così alla colonna di acquisire una distanza di sicurezza.
La colonna in fuga da Arbuzovka fu oggetto di violente incursioni di grosse pattuglie russe che provocarono numerose vittime. I primi gruppi raggiunsero Čertkovo nella notte di Natale 1942 e l’afflusso continuò fino alla sera del 26 dicembre.
Čertkovo rivestiva una particolare importanza strategica in quanto costituiva un importante nodo ferroviario lungo la linea Kantemirovka-Millerovo verso il fiume Donez.
Non essendo possibile proseguire verso Belovodsk, venne decisa una temporanea sistemazione a caposaldo della località, che si protrasse fino al 15 gennaio 1943. Quella sera fu tentata una sortita camminando in aperta campagna, per vie secondarie, e fu possibile raggiungere Belovodsk dove i superstiti furono finalmente al sicuro.
Il Blocco Sud era formato dal 6° Rgt. Bersaglieri, da aliquote della Sforzesca, da un’aliquota della Pasubio, oltre che da tedeschi e romeni. La loro marcia nel gelo fu ripetutamente oggetto di attacchi nemici, per cui la colonna andava sempre più allungandosi e chi rimaneva staccato si trovava maggiormente esposto alle incursioni dei pattuglioni russi.
Spesso, quando la colonna era prossima alla meta, si veniva a sapere che quella località era stata nel frattempo conquistata dal nemico ed il percorso tornava ad allungarsi.
Particolarmente tragica la sorte di un gruppo di militari che, ormai vicini a postazioni germaniche, nell’oscurità non avevano visto le segnalazioni di campi minati e, a pochi metri dalla salvezza, erano morti orrendamente dilaniati dallo scoppio delle mine.
Ai primi di gennaio i superstiti raggiungevano Forštadt sul Donez, da dove proseguivano verso Rykovo.
L’operazione Ostrogožsk-Rossoš’
Questa offensiva sovietica doveva condurre all’accerchiamento ed alla distruzione di tutte le Unità ungheresi, italiane e tedesche rimaste sul Don. Fu deciso il massimo concentramento delle forze su due punti individuati per la rottura, lasciando lungo il resto del fronte solo deboli forze di copertura. Le due branche della tenaglia si sarebbero poi riunite formando una grande sacca nella quale intrappolare le Unità e agevolarne la progressiva distruzione.
Avendo ancora una volta concentrato le Unità sovietiche preminentemente sui punti di rottura, al momento dell’attacco esse acquisirono una superiorità pressoché schiacciante.
Inoltre, per disorientare i Comandi alleati, furono inscenati falsi movimenti notturni di truppe, colonne di automezzi in movimento a fari accesi, ed altri espedienti simili.
Poco prima dell’alba del 14 gennaio 1943, preceduto da un violento fuoco d’artiglieria, fu attaccato il settore tedesco. Il volume di fuoco che si avvertiva lungo l’intero settore investito dava l’esatta misura dell’enorme sforzo messo in atto dai sovietici ed era impossibile che le Unità tedesche impegnate, già severamente logorate dai numerosi combattimenti sostenuti in precedenza e prive di forze di riserva, potessero reggere un tale sforzo difensivo. Nella notte seguente, infatti, iniziavano il ripiegamento.
La mattina del 15 gennaio i carri sovietici irrompevano a Rossoš’, sede del Comando d’Armata Alpino, che si ritrovava diviso in due: a nord la Divisione Tridentina e parte della Vicenza, ancora in buone condizioni, mentre le Divisioni Cuneense e Julia erano gravemente provate ed in grande difficoltà. Solo la sera del 16 venne finalmente autorizzato il ripiegamento anche del Corpo d’Armata Alpino italiano, che si trovava ormai con forti contingenti nemici alle spalle.
Il 17 gennaio iniziò la ritirata e si cercò il più possibile di radunare i reparti. Il 19 il più delle forze di queste tre Grandi Unità era presente nella zona di Popovka ed il Gen. Battisti, comandante la Divisione Cuneense, poteva trasmettere ai vari altri comandanti le direttive ricevute dal Comando del Corpo d’Armata Alpino circa l’ulteriore fase del ripiegamento che avrebbe visto le Divisioni Julia e Cuneense dirigersi verso la località di Valujki quale punto di sbocco previsto dall’accerchiamento nemico, mentre la Vicenza avrebbe assunto la posizione di retroguardia alla Tridentina.
La marcia iniziava sotto continui attacchi sovietici. Lo scaglione di testa era dotato di quanto di meglio si poteva ancora disporre, poi man mano le colonne si indebolivano e le difficoltà aumentavano. Se in testa alla colonna si moriva per lo più a causa degli scontri col nemico, dietro questo avveniva in massima parte per le imboscate e la sempre maggiore debilitazione fisica.
Il continuo susseguirsi di attacchi e di marce estenuanti sembrava consolidare nell’animo di ciascuno la coscienza che l’uscirne fosse possibile solo con un comune sforzo, e questo stato d’animo si traduceva in mille episodi di altruismo e di eroismo, consolidati dallo stesso spirito di gruppo caratteristico degli alpini.
Nella notte sul 22 gennaio il Comando dell’8ª Armata comunicava al Gen. Nasci che la primitiva decisione di giungere a Valujki per trovare sbocco alla sacca risultava ormai inattuabile perché la zona era ora saldamente occupata da formazioni nemiche. Diveniva perciò necessario deviare l’itinerario verso un nuovo punto di rottura individuato sulla direttrice Nikitovka-Nikolaevka. Già da giorni però il Gen. Nasci, che seguiva con il proprio Comando la Divisione Tridentina, aveva perso ogni contatto con le altre Unità alle sue dipendenze, né queste disponevano di mezzi di ricetrasmissione efficaci. Egli avvertiva così, con un senso di dolorosa angoscia, come continuando a dirigersi verso Valujki nella convinzione di trovarvi la salvezza, le Divisioni Cuneense e Julia si avviavano invece verso il loro totale ed inevitabile sacrificio.
Per la Julia questo avvenne in quella stessa giornata, quando fu attaccata da forti contingenti di carri armati russi e non le rimase che la resa.
All’alba del 26 gennaio la Tridentina aveva raggiunto Nikolaevka. A più riprese si superava la massicciata della ferrovia, si veniva respinti, si tornava all’attacco. La situazione sembrava di stallo e si risolveva con l’intervento del Gen. Reverberi, comandante della Divisione, il quale, guidando personalmente l’azione dei pochi carri e semoventi tedeschi, riconduceva i suoi alpini al decisivo assalto che costringeva finalmente i russi ad abbandonare il campo ormai ridotto ad un immenso cimitero di uomini e di cose. Usciti da Nikolaevka la marcia continuava per raggiungere una zona di maggiore sicurezza.
Intanto il 27 gennaio la Cuneense arrivava a Valujki, dove veniva sterminata da reparti di cavalleria cosacca.
Conclusioni
Il rimpatrio dei superstiti di tutte le Unità che avevano potuto raggiungere i centri di raccolta avvenne entro la primavera 1943.
Rimaneva in Russia un enorme numero di prigionieri, catturati nelle due operazioni sovietiche ed avviati verso i campi di prigionia attraverso le allucinanti marce del davai fino alle stazioni di raccolta, poi su treni merci sui quali si registrò una elevatissima mortalità, per arrivare in campi di smistamento dove la fame, il freddo, le epidemie e la totale mancanza della minima assistenza causarono nei primi sei mesi del 1943 la morte dell’86% dei 70.000 militari italiani catturati.
Le perdite: i dati ufficiali riguardanti l’intera Campagna di Russia riportano complessivamente 89.938 caduti e dispersi, e 43.282 feriti e congelati. Considerato che fino al 10 dicembre 1942 era stato possibile seppellire i caduti e registrare i dispersi, l’incognita sulla reale sorte subita riguardava praticamente gli 84.830 che risultarono mancanti all’appello una volta che tutte le colonne dei superstiti avevano raggiunto i centri di raccolta nella zona di Gomel’. Con il rimpatrio avvenuto più tardi di 10.030 prigionieri il numero dei combattenti italiani per i quali non è stato possibile chiarire la sorte risulta così di 74.800 uomini. Sono più di 90.000 i nominativi dei caduti e dei dispersi raccolti a cura del Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti in Guerra del Ministero della Difesa, disponibili in n. 24 volumi conservati nella Cripta del Tempio Nazionale di Cargnacco del Friuli (Udine), eretto nel 1955 in loro memoria.
(tratto da B. Lancellotti “RUSSIA 1941-1943 CSIR e ARMIR sul Fronte orientale”, Editrice Nuovi Autori, Milano 1988 )